3. IL SISTEMA
Il problema però non è risolto, semmai si è rovesciato: a preoccupare non è più il fatto che non si segni, quanto che le difese si siano trasformate da bunker in autentici colabrodo. Il 6 ottobre 1925, Herbert Chapman, tecnico dell’Arsenal, dopo un umiliante 0-7 subito dal Newcastle, decide di accogliere il suggerimento del capitano Buchan e muta la disposizione difensiva dei suoi uomini: allarga i due terzini, che hanno il compito di marcare le ali avversarie (cosa che prima spettava ai mediani laterali), arretra sulla loro linea il centromediano, che resta il custode dell’attaccante ma non ha più il compito di costruire il gioco; i due mediani laterali, infine, vengono accentrati, e devono occuparsi dei due interni avversari, che prima non erano marcati. Usando la dizione odierna, si direbbe che la difesa passa da un “2-3” a un “3-2”. Se si potesse guardare la disposizione sul campo da un aereo, si vedrebbe che i giocatori formano ora, davanti al portiere, uno schema che ricorda una M, e non più una W. Rimanendo invariato rispetto al Metodo l’attacco (con le due mezzali, le ali e il centravanti) si passerà a chiamare il nuovo modulo WM o Chapman System. In Italia, il Chapman System (reso in italiano con “Sistema”) getta i primi semi nella stagione 1927-1928, con Arpaid Weisz, tecnico ungherese dell’Inter, anche se è solo dal 1939-1940 che viene applicato in modo sistematico dal Genoa dell’inglese William Garbutt. È però grazie al Grande Torino che il nuovo modulo si fa definitivamente strada, entrando in concorrenza con il Metodo anche nel nostro Paese.
Alcune considerazioni a margine:
1. In generale, il Metodo funziona con squadre più tecniche che dinamiche, in grado di giocare la palla a terra e di azionare rapidi contropiedi; e con elementi fisicamente non prestanti ma dotati di estro e velocità nei ruoli chiave, a centrocampo, in attacco e lungo le ali. Un modulo che calza a pennello per le caratteristiche dei giocatori di scuola latina, in Europa e in America, e danubiana. Anche se con varianti non da poco, tra nazione e nazione, a causa delle diverse mentalità e delle diverse tradizioni culturali e storiche dei vari popoli. Il Sistema invece è più adatto a un calcio dirompente e atletico e si sposa meglio con le peculiarità dei calciatori del Nord Europa, inglesi, tedeschi, scandinavi.
2. A livello teorico, il Sistema sembra un modulo maggiormente improntato alla copertura difensiva, in quanto nasce per ovviare alla nuova regola del fuorigioco che mette in forte crisi la retroguardia: rispetto al Metodo, Chapman potenzia la terza linea con un uomo in più (il centromediano portato sulla linea dei terzini) togliendo allo stesso il ruolo di primo costruttore della manovra; arretra il raggio d’azione delle due mezzali, cui assegna compiti di marcatura sui mediani avversari; cerca di proteggere meglio il centrocampo, che si trova costruito intorno ad un quadrilatero, formato dai due mediani, e dalle due mezzali davanti a loro.
La sua idea è quella di uno schieramento con ben otto giocatori adibiti a compiti di marcatura e solo tre liberi (le due ali e il centravanti). All’atto pratico, però, il Sistema si rivela un modulo molto meno difensivo del Metodo. Nel Metodo, infatti, il centravanti e le due ali erano marcati dalla seconda linea (i due mediani laterali e il centromediano), dunque si trovavano più lontani dalla porta avversaria; alle loro spalle, i due terzini d’area, che come abbiamo visto erano liberi da marcature ad personam, potevano intervenire in seconda battuta.
3. Nel Sistema l’attacco e la difesa sono disposte in modo speculare: la partita viene quindi trasformata in una serie di duelli individuali e si passa ad una marcatura a uomo, abbandonando la zona del Metodo. Basta così riuscire a superare il proprio marcatore diretto per creare la superiorità numerica e mettere sotto scacco la retroguardia avversaria. Chi usa il Sistema impiegando giocatori di caratura modesta va incontro al fallimento, in quanto perennemente sconfitto nei duelli individuali. Solamente le squadre che annoverano elementi di altissimo livello tecnico e capaci di non farsi “saltare” con regolarità nell’uno contro uno, come l’Arsenal di Chapman, o, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Grande Torino e la Honved/Grande Ungheria, riescono ad esaltare appieno le caratteristiche del modulo.
Anche in queste grandi squadre, tuttavia, le difese risentono delle pecche del Sistema e non si dimostrano sempre invulnerabili: il Grande Torino che segna oltre 100 reti a campionato, subisce in media una trentina di gol; la Grande Ungheria, prolungamento della squadra di club della Honved, al Mondiale 54 inopinatamente perso in finale contro la Germania Ovest dopo quattro anni e mezzo di imbattibilità, mette sì a segno qualcosa come 27 reti in 5 partite (!), ma ne incassa anche 10. E stiamo parlando di due delle compagini più forti dell’intera storia pallonara, in quanto a organizzazione e complesso armonico di squadra: non sussiste percui il minimo dubbio sul fatto che il Sistema lasci parecchio a desiderare in chiave difensiva.
4. Il Sistema, dal punto di vista delle innovazioni tattiche, è forse il modulo di gioco che più ha cambiato il calcio. Ha diffuso il concetto che il reparto più importante della squadra e del gioco sia il centrocampo (idea che sussiste ancora oggi) e che sia in questo settore che principalmente vengano decise le partite. In più, con il Sistema nasce la figura della mezzala universale, capace di surrogare i compiti del medio-centro, oltre a quelli della mezzala metodista, e se è il caso anche del centrattacco. La terza figura di grande rilievo che prende spunto dal Sistema è quello del terzino fluidificante: allargato lungo l’out, un giocatore dotato di particolari attitudini offensive e di qualità atletiche e tecniche fuori dall’ordinario ha la possibilità di sganciarsi sulla fascia di competenza e spingersi in avanti fino al cross. Quarta figura che prende origine dal Sistema è lo stopper centrale, elemento che deve preoccuparsi di controllare il centravanti di turno senza altre mansioni specifiche.
LE SQUADRE 1
L’Arsenal di Chapman
Herbert Chapman arriva all’Arsenal nel 1925 dopo aver conquistato due titoli inglesi consecutivi alla guida dell’Huddersfield Town. I “Gunners” invece sono reduci da alcune stagioni disgraziate, coincise con salvezze strappate nelle ultime battute con le unghie e con i denti. La società intende rialzare la testa e ingaggia a peso d’oro il manager, ritenuto il migliore d’Inghilterra. La squadra viene poco ritoccata e l’inizio è decisamente negativo. Il 6 ottobre 1925 l’Arsenal tocca il fondo, seppellito 7-0 a Newcastle. La nuova regola del fuorigioco ha sconvolto i meccanismi difensivi, gli attacchi vanno a nozze e i gol fioccano.
Chapman, di concerto con i suoi vice Hulme e Whitakker, decide che il tempo delle umiliazioni è finito. Prende da parte la mezzala, capitano e leader della squadra Charlie Buchan e gli spiega che ha intenzione di cambiare radicalmente la disposizione della difesa per evitare ancora ignobili rovesci. Il centromediano Jack Butler d’ora in poi non deve più fungere da stopper e regista ma viene arretrato davanti al portiere preservando solo la funzione di marcatore. I terzini, fino a quel momento liberi da compiti di marcatura diretta, vengono allargati lungo le fasce con il compito di tenere d’occhio le ali. I due mediani laterali invece si accentrano per controllare non più le ali ma le mezzali. La difesa passa in pratica da un 2-3 a un 3-2. Inoltre, in attacco, Chapman arretra il raggio d’azione delle due mezzali che passano a collaborare alla costruzione dell’intera manovra e non più solamente della fase offensiva, ereditando di fatto le mansioni di regia che nel Metodo erano prerogativa del centromediano. Nasce così il centrocampo, plasmato intorno a un quadrilatero che costituisce la vera forza motrice del nuovo modulo, subito ribattezzato “Chapman System”.
L’Arsenal così ridisegnato e meglio bilanciato vince la partita successiva 4-0 con doppietta di Buchan e in breve torna a disputare campionati nelle zone di vertice. Ma per trasformare quel mosaico in una squadra capace di sbaragliare la concorrenza, è necessario inserire le giuste tessere. Le grandi risorse economiche del club consentono a Chapman di acquistare i migliori giocatori dell’isola. In pochi anni l’Arsenal si trova ad avere così una formazione praticamente imbattibile, forgiata su campioni quali Eddie Hapgood, Cliff Bastin, David Jack e Alex James (questi ultimi convinti da contratti principeschi, rispettivamente di 10 e 11 mila sterline).
Al massimo del suo apogeo, i Gunners presentano, davanti al portiere Preedy, quella che è la difesa della nazionale inglese: il centromediano Wilson e i terzini Male e Hapgood. Quest’ultimo in particolare, è un elemento di grandissime qualità atletiche e tecniche, non si limita a coprire sull’ala ma spinge lunga l’intera fascia di appartenza, trasformandosi in un’arma efficacissima sul fronte d’attacco. Esempio di correttezza e lealtà, diventa capitano della squadra e dell’Inghilterra nel giro di poche stagioni; ritenuto il primo terzino fluidificante della storia, è uno dei massimi interpreti di sempre. I due mediani, Crayston e John, proteggono le spalle a una stupenda coppia di interni.
A destra, il motorino David Jack, infaticabile nei ripiegamenti e continuo nella sua azione di raccordo. E a sinistra, il fenomeno, lo scozzese Alex James, forse il più grande giocatore britannico di ogni epoca, se fosse possibile una graduatoria all-time. I cronisti dell’epoca scrivono che James è in grado di vedere il gioco con due mosse di anticipo su tutti gli altri. Il fuoriclasse scozzese costituisce la prima mezzala a tutto campo della storia, una figura che avrebbe trovato degni interpreti anche nell’italiano Valentino Mazzola, nell’argentino Alfredo Di Stefano, nell’inglese Robert Charlton, nell’olandese Johan Cruyff. Mai si era visto un giocatore capace di spaziare su una così vasta fetta di campo prima di allora. L’azione di James prende il via dalla difesa, dove raccoglie i disimpegni di Wilson e costituisce il regista arretrato, fungendo da vero e proprio centromediano metodista. Dalla terza linea, il suo gioco si sviluppa in modo dominante e assiduo fino a ridosso dell’area avversaria, dove innesca l’attacco atomico, composto da tre elementi di indiscutibile talento: a destra, Joe “Flying” Hulme, dotato di un dribbling ubriacante e doti di palleggio fantastiche; a sinistra, Cliff Bastin, stella della nazionale inglese e record-man di gol in maglia Gunners prima dell’avvento di Henry. Micidiale nelle battute a rete e nei cross, capace di realizzare ben 32 segnature in un solo campionato, quasi tutti su illuminanti assist e aperture di James. Se avessi avuto Bastin, dichiara il tecnico dell’Austria Hugo Meisl, avrei vinto il Mondiale del ’34 in Italia.
Al centro, il poderoso Drake, che arriva a segnare ben 7 reti in un Arsenal-Aston Villa 7-1 del 1935. Chiaro che con un simile concentrato di forza e talento, l’Arsenal (irrobustito anche da valide riserve come il portiere olandese Keyser, il terzino Parker, lo stopper Seddon, il veterano Bacher, trasformato da interno a centromediano, il centravanti Lambert) domini sul campo e cambi il corso della storia.
La strisca di successi si apre nel 1930 con la vittoria in FA Cup e prosegue con i titoli nazionali del ‘31’, ’32 e ’34. L’Arsenal è una macchina oramai rodata, e neppure la prematura scomparsa di Chapman nel ’34, arresta la fame di vittorie. Nel 1935 è ancora scudetto, nel 1936 arriva la seconda FA Cup. Il ciclo oramai è chiuso ma in un impeto d’orgoglio i pochi reduci di quel meraviglioso dream team arpionano ancora il titolo del 1938. Nessuna squadra ha forse cambiato il calcio come l’Arsenal di Chapman. Una rivoluzione d’ottobre che ha in un tecnico di profonda abilità calcistica il condottiero, e in una schiera di impareggiabili solisti l’infallibile braccio armato.
Il Grande Torino
Quando il Grande Torino, quel maledetto 4 maggio 1949, si infrange contro il terrapieno della basilica di Superga, chiudono scuole, uffici pubblici, fabbriche in tutta Italia, e viene proclamata giornata di lutto nazionale. Perché il Grande Torino non è soltanto una squadra di calcio e basta: è il simbolo di un Paese che rinasce, la speranza dopo gli anni bui della Seconda Guerra Mondiale. Il presidente Novo, imprenditore nel ramo delle pelli, la costruisce nel periodo pre-bellico, quando fa arrivare dalla Juventus il portiere Bodoira e i centravanti Felice Placido Borel e Guglielmo Gabetto, considerati finiti in maglia bianconera; e un pacchetto di ali di grande impatto e rara eleganza: il varesino Franco Ossola, il vicentino Romeo Menti dalla Fiorentina e il vercellese Ferraris II dall’Ambrosiana (Inter). Grazie ai consigli del ct della Nazionale Vittorio Pozzo, da sempre sostenitore della squadra granata, Novo completa il mosaico durante il conflitto.
Le basi vengono gettate nella stagione 1941-42: su pressione dell’attaccante Borel II e dell’allenatore Kutik, Novo approva la scelta di utilizzare il Chapman System, abbandonando così il vecchio Metodo, tanto caro alla scuola italiana. Il Torino dà vita a un appassionante lotta al vertice con Roma e Venezia. A poche giornate dal termine, i granata sono ospiti dei veneziani, terza forza del campionato. Il Toro passa in vantaggio ma è un fuoco di paglia. I padroni di casa, sospinti dal formidabile duo di mezzali Loik-Mazzola, ribaltano la situazione e si impongono 3-1. Nell’intervallo del match il presidente Novo scende negli spogliatoi, stregato dai due assi. Stacca un assegno da 1.250.000 lire (cifra mostruosa per i tempi) più Petron e Mezzadri e riesce a strappare Loik e Mazzola alla Juventus, da tempo sui giocatori ma beffata dalla scelta temporeggiatrice del suo presidente Dusio. I granata chiudono il torneo al secondo posto, alle spalle della Roma, ma è già chiaro che dalla stagione seguente il discorso sarebbe cambiato. Novo oltretutto completa le fila con l’acquisto del poderoso mediano Grezar dalla Triestina.
Nel 1942-43, il Torino conquista finalmente lo scudetto, il secondo (o il terzo se si considera il titolo revocato del 1927-28) della sua storia, con un punto di vantaggio sul sorprendente Livorno. Il campionato si ferma quindi per un anno e mezzo. In cui il Toro, unito al marchio Fiat e irrobustito dalla presenza del bomber della Nazionale Silvio Piola, partecipa al torneo di guerra ed è battuto in finale dai Vigili del Fuoco di La Spezia solo per i postumi di un massacrante viaggio in Friuli. Finita la guerra, Novo aggiunge quattro pedine in difesa: il portiere Bacigalupo dal Savona, il terzino destro Ballarin dalla Triestina, il mediano sinistro Castigliano dallo Spezia. In più, dalle giovanili, spunta il virgulto Virgilio Maroso.
Con una simile intelaiatura, il Torino conquista quattro scudetti consecutivi, sbriciolando 22 primati di squadra! Tra i più significativi, il massimo punteggio in classifica, con la vittoria da due punti (65), il massimo vantaggio sulla seconda (+16), il massimo numero di gol realizzati (125), il più alto numero di partite vinte in casa (19 su 20), la vittoria più larga (10-0 sull’Alessandria)... Quasi tutti i 22 record si riferiscono alla stagione 1947-48, quando il Grande Torino raggiunge il suo massimo fulgore. Tra le imprese da consegnare al mito, anche il maggior numero di giocatori dati alla Nazionale per una sola partita (10, tutti tranne il portiere Bacigalupo, per Italia-Ungheria 3-2 dell’11 maggio 1947). Logico che un simile portento entri nel cuore di tutti, soprattutto in un periodo così avaro di certezze e ricco di problematiche come il dopoguerra italiano. Il discobolo Consolini, la rivalità Coppi-Bartali e poi loro, gli invincibili campioni granata: questi gli eroi della rinascita, le guide per un futuro migliore.
Una squadra che diventa tale grazie alla mano del factotum (dirigente, preparatore, a tratti anche allenatore) ebreo-ungherese Egri Erbstein, fuggito alla persecuzione nazista durante la guerra. Erbstein viene dalla grande scuola danubiana, crede dunque a un gioco armonico, fatto di passaggi breve, manovrato e cadenzato. Ma ha l’intelligenza di capire che bisogna tenere conto delle differenze genetiche e strutturali degli atleti italiani e latini rispetto a quelli mitteleuropei. Per prima cosa, programma sedute quasi quotidiane di allenamenti molto più duri e specifici di quelli in voga al tempo, in modo da irrobustire la fibra atletica. Prima di ogni partita, dà vita a poi a quello che si sarebbe detto “riscaldamento” in modo da temprare il fisico e portare i giocatori a un approccio agonistico decisamente più all’avanguardia. Il giorno dopo la partita è invece dedicato a bagni, docce e cure defatiganti che permettano un pieno recupero.
La superiore preparazione atletica, che abbiamo prima analizzato, dà modo al Grande Torino di effettuare un’efficace pressione sui portatori di palla a tutto campo e annicchilire la resistenza di qualsiasi rivale grazie al celeberrimo “quarto d’ora”. Trattasi di dieci minuti nei quali i granata, sul campo di casa del Filadelfia, vengono guidati dallo squillo del trombettiere Bolmida e dal gesto del proprio condottiero, il capitano Valentino Mazzola, che si rimbocca le maniche e suona la carica. Il risultato è un vortice impetuoso che muove verso la porta avversaria con una forza e una carica impressionanti, e sfruttando una velocità di base almeno vent’anni avanti. In quei dieci minuti, il Torino si rende capace di miracoli autentici, recuperare uno 0-3 alla Lazio e trasformarlo in un 4-3 a proprio favore, infilare 6 reti alla Roma, seppellire di reti qualsiasi formazione del campionato. A livello tattico, poi, Erbstein sfrutta la grande versatilità di molti componenti della rosa per applicare un calcio di movimento, tipico della scuola danubiana e già teorizzato e in parte messo in pratica da Hugo Meisl nel Wunderteam austriaco.
Il Grande Torino è schierato con un Sistema anomalo, nel senso che il modulo inventato da Chapman costituisce la base ma poi si modella a seconda dei movimenti dei calciatori granata. Davanti a Bacigalupo, portiere dai riflessi felini, modernissimo nei fondamentali e ancora in fase ascendente quando muore a Superga a soli 25 anni, la difesa consta di tre elementi di grande levatura e mobilità: il terzino destro Ballarin, attaccante di complemento, il centromediano Rigamonti, dalla solida stazza e dall’atletismo dirompente e il terzino sinistro Maroso, forse il difensore più tecnico della storia del nostro calcio, nonché il primo terzino fluidificante: suoi degnissimi eredi sarebbero stati Cervato, Facchetti, Cabrini e Paolo Maldini. La classe superiore, i virtuosismi tecnici e la straordinaria velocità (a 22 anni corre i 100 metri in 11 secondi) avrebbero forse consentito a Maroso di evolvere nel corso della carriera verso ruoli di maggior estro, quali l’ala o la mezzala o anticipare la lezione innovatrice di Franz Beckenbauer. Tutte ipotesi affascinanti e fantasiose, rese vane dal rogo di Superga che lo rapisce in cielo a soli 24 anni.
A centrocampo, il quadrilatero sistemista si avvale di due polmoni d’acciaio in veste di mediani: il triestino Grezar, al contempo anche raffinato stilista, e l’onnipresente Castigliano, una vera forza della natura ed efficacissimo anche come stoccatore (arriva a segnare ben 13 reti nella seconda parte del campionato 1945-46). In fase di non possesso palla, Grezar arretra sulla linea dei difensori formando così qualcosa di molto simile a una moderna difesa a 4, che da destra a sinistra allinea Ballarin, Rigamonti, Grezar e Maroso. La riprova di quello che dicevamo prima e cioè della grande mobilità tattica del Sistema granata.
In regia, le due mezzali strappate al Venezia: a destra, l’infaticabile fiumano Loik, a sinistra, il capitano e anima Valentino Mazzola, il più completo calciatore di sempre del calcio italiano. Mazzola raccoglie la lezione di Alex James e va oltre: non si limita ad arretrare fin quasi sulla linea di difesa, dirigere il gioco in mezzo e rifinirlo in avanti con il piglio del condottiero, ma si incunea nell’area avversaria risultando anche il più devastante dei goleador. Ne relizza ben 130 in 256 partite, con l’apice del 1946-47, quando si laurea capo-cannoniere del campionato con 29 centri. In attacco, il funambolico Menti a destra, il regolare Ferraris II (nell’ultima stagione Ossola che passa alla storia nella formazione titolare) a sinistra e il “Barone” Gabetto al centro. Anche in questo caso, quando il Torino è sulla difensiva, Ferraris II arretra quasi a centrocampo, per irrobustire il centrocampo privato di un uomo, visto l’arretramento in difesa di Grezar.
Le imprese del Grande Torino fanno il giro d’Europa e del Mondo, anche se all’epoca non sono ancora riprese le competizioni internazionali ufficiali. Capita così che il capitano del Benfica e del Portogallo, José Ferreyra, amico di Valentino Mazzola, inviti la squadra granata in occasione del suo addio al calcio. Il Grande Torino, con il quinto scudetto già in tasca, vola a Lisbona per disputare l’amichevole celebrativa ai primi di maggio.
Il ritorno è previsto per il 4 maggio 1949. La fitta nebbia che copre Torino rende quasi impossibile la vista. Alle 17.05 il trimotore Elce I della Fiat si schianta contro il terrapieno della basilica di Superga, causando la morte istantanea di tutti e 31 i componenti a bordo: 18 giocatori del Torino, 2 tecnici (Erbstein e l’inglese Lievesley), 3 dirigenti e 4 membri dell’equipaggio. Unici sopravvissuti di quello squadrone leggendario sono il presidente Novo, rimasto a casa perché reduce da una broncopolmonite, due giocatori, le riserve Gandolfi (portiere) e Tomà (terzino sinistro), il segretario Giusti e il dirigente Rocca. Le restanti quattro giornate di campionato vengono giocate dalla squadra ragazzi e lo scudetto assegnato d’ufficio.
L’Italia è sconvolta. Nel morale, nello spirito ma anche a livello tecnico, visto che i giocatori del Torino costituvano l’ossatura della Nazionale, e 6 o 7 di loro sarebbero presumibilmente partiti titolari al campionato del Mondo dell’anno seguente. Ci vogliono dieci anni prima che il nostro calcio riesca a rialzare la testa. Si dissolve così, da un giorno all’altro, quella che per tutti gli italiani resterà per sempre la squadra più amata. LE SQUADRE 2
La Grande Ungheria
E’ forse la più grande squadra di calcio di tutti i tempi, e non può essere altrimenti visto che nel progetto dell’ “Aranycsapat” (squadra d’oro) si mescolano un concentrato di rivoluzioni epocali sul piano tattico e dell’idea di squadra con una qualità offensiva dei singoli sbalorditiva, senza paragoni. Allenatore, maestro e guida della squadra è Gusztav Sebes, ex centromediano di buon livello, diventato ct della Nazionale nel 1949. L’eleganza e la grazia dell’impero asburgico sono oramai un lontano ricordo, e così pure il calcio danubiano che tanto aveva spopolato prima del conflitto, pare entrato in un irreversibile declino.
Ma dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale cresce nella piccola patria magiara una fioritura di talenti unici, di quelle che di solito si verificano in un Paese una volta ogni 100 anni. La nuova svolta comunista impone alle squadre di calcio un collegamento diretto con le aziende statali e i corpi istituzionali: dalla Kispest nasce così la Honved, la squadra dell’esercito che in italiano significa “Difesa della patria”. Una formazione nella quale in pochissimo tempo vengono fatti confluire i migliori giocatori del Paese, in modo da formare una sorta di invincibile armata. La Honved vince quattro scudetti (’50, ’52, ’54 e ’55) prima dell’invasione di Budapest del ’56 che provoca la fuga dei componenti di quel Dream Team nei campionati occidentali. Sebes forgia l’Ungheria intorno al blocco della Honved, ai quali aggiunge qualche elemento dell’altra squadra dominante del Paese, il Voros Lobogo (ex Mtk).
Con certosina pazienza il tecnico plasma così una Nazionale senza rivali al Mondo, ma con un punto debole: l’attacco. Il più forte centravanti del calcio magiaro, il grande Bamba Deak, capace di segnare ben 66 reti nel campionato 1945-46, entra in conflitto con i vertici comunisti ed è costretto così a lasciare la Nazionale. Lo sostituisce Palotas, altro giocatore di squisite proprietà tecniche, ma non in linea con le idee di Sebes. L’allenatore magiaro ha infatti in mente una correzione tattica per meglio assecondare il valore degli interpreti.
Disponendo di due interni dalle eccezionali medie realizzative, quali Kocsis e Puskas, più inclini al ruolo di mezzali metodiste che sistemiste, l’allenatore cambia la disposizione offensiva: l’attacco non disegna più una W, ma una M con i due interni avanzati rispetto alle due ali e al centravanti. Con il nuovo modulo a WM, è necessario trovare un centravanti che non sia tanto e solo un terminale, quanto un tessitore dell’intera manovra. Sebes individua questo anello mancante in Nandor Hidegkuti, all’epoca ala del Voros Lobogo. L’allenatore prova in svariate amichevole Hidegkuti quale vertice arretrato della M offensiva, ma sempre senza i risultati sperati. Il valore del giocatore non si discute, come dimostrano le prestazioni fantastiche con il club. Sebes capisce ben presto che il problema è psicologico: Hidegkuti soffre troppo la pressione quando si trova a vestire la maglia dell’Ungheria e non riesce a rendere come il suo talento imporrebbe. A pochi mesi dai Giochi Olimpici del ’52, la nazionale affronta a Varsavia in un doppio probante test-match Polonia e Finlandia. Improrogabili impegni vietano a Sebes di prendere parte alla trasferta.
L’allenatore anticipa la formazione, con Palotas centravanti titolare tra le mezzali Kocsis e Puskas. Affida quindi al vice Gyula Mandi e a Ferenc Puskas una busta contenente una lettera, ordinando ai due di aprirla solo poco prima del fischio iniziale. Sulla busta c’è scritto: centravanti al posto di Palotas, giocherà Hidegkuti. Il nostro, già in tribuna, viene chiamato in tutta fretta negli spogliatoi, si cambia ed entra in campo. L’Ungheria asfalta i polacchi 5-1, Hidegkuti segna due reti ed è il migliore in campo. Il segreto di un così sconvolgente cambiamento di rendimento? Lo spiega lo stesso Hidegkuti: La sera prima mi sono coricato tranquillo, convinto di non giocare, e ho dormito sereno senza pressioni né paure.
Sebes ha trovato il tassello mancante, Hidegkuti ha vinto la paura: l’Ungheria può finalmente riversare sul resto del pianeta il proprio prodigioso arsenale di fuoco. Le Olimpiadi di Helsinki si fanno testimoni di una squadra che vince l’oro a redini basse, incantando pubblico e addetti ai lavori con un calcio mai visto, sublimato dall’estro di interpreti meravigliosi. Un calcio dove il talento, la tattica, il movimento, l’idea di squadra raggiungono vette inesplorate.
I calciatori ungheresi giocano a memoria, sono capaci di capovolgere il fronte del gioco con 3 passaggi in verticale, come di avvicinarsi gradatamente alla porta avversaria attraverso una manovra intessuta di 15-20 passaggi, tutti palla a terra, tutti o quasi tutti di prima. Un tourbillon magistrale che stordisce qualsiasi avversario, incentrato su un movimento continuo da parte di tutti i giocatori, sia in fase di possesso che di non possesso palla, su fuorigiochi continui, su sovrapposizioni costanti. Il pallone viene lanciato negli spazi vuoti, in modo da obbligare il compagno a correre per andare a ricevere il passaggio. Un meccanismo sconvolgente, dato che fino ad allora il giocatore era solito rimanere fermo, in attesa del lancio, e non era assolutamente abituato allo scatto, tantopiù così sistematico. Vittorio Pozzo, due volte campione del Mondo con l’Italia, dichiara di non aver mai visto un calcio così spettacolare, la rivista tedesca Kicker scrive che 90 minuti sono troppo pochi per assistere a un simile prodigio.
L’Ungheria diventa la stella d’Europa, vessillifera di un football nuovo, che vent’anni dopo sarebbe stato etichettato come “totale”. Ma quello in realtà è calcio nella sua accezione più pura e semplice. Perché per quanto appaia così ricco, variegato e impossibile da replicare, nasce dalle coordinate del talento più straordinario, dell’estro del singolo, del divertimento. Dietro alle nostre vittorie non ci sono molti segreti, dichiara un giorno Puskas. Giochiamo per il piacere di farlo, tatticamente non esistono soluzioni particolarmente innovative. La filosofia è quella, semplicissima, di buttare la palla in fondo al sacco, sempre e comunque.
Al suo massimo, l’Ungheria presenta Gyula Grosics, uno dei più forti portieri di tutti i tempi, tra i pali. In difesa, a destra opera il pendolino Buzansky, vero e proprio terzino fluidificante, tecnicamente valido ma non eccelso, però dotato di abilità agonistiche e atletiche straordinarie, che gli consentono di avanzare fino al capolinea della fascia. Il centromediano sistemista è il possente Lorant, con a sinistra Lantos, altro terzino d’attacco nelle giornate di vena. In mezzo al campo, Zakarias è il mediano sinistro e svolge un prezioso lavoro oscuro.
Sul fronte destro, il leggendario Bozsik, considerato il più grande mediano di tutte le epoche, immenso direttore d’orchestra, capace di cancellare dal campo la più pericolosa delle mezzali avversarie come di azionare le impareggiabili bocche da fuoco dell’attacco, con lanci da 70 metri precisi al millimetro o con pennellate di nitidissima classe. La prima linea vede Budai II (in alternativa Toth) finta ala destra, dato che ha la tendenza ad accentrarsi e dare manforte al centrocampo. Sul versante sinistro, opera invece l’ “uccello pazzo” Zoltan Czibor, campionissimo del ruolo, in grado di partire verso la porta avversaria con finte ubriacanti o scoccare micidiali conclusioni dal limite dell’area. In mezzo, a dirigere il traffico, il già citato Nandor Hidegkuti, che non dimentica affatto come si fa a segnare (68 partite e 39 reti in Nazionale) ma veste più spesso i panni del rifinitore, sfruttando doti straordinarie di assist-man e costruttore del gioco.
I due interni avanzati, in pratica delle mezzali metodiste, Sandor Kocsis e Ferenc Puskas, rappresentano una coppia offensiva di insuperabile efficacia. Il primo, detto “testina d’oro” è probabilmente il più forte colpitore di testa di ogni tempo. Sbalorditiva la sua media gol in Nazionale, con 75 reti in 68 presenze, si laurea capo-cannoniere al Mondiale ’54 quando in 5 gare mette a segno la bellezza di 11 gol. Sul centro-sinistra la stella assoluta e icona del calcio ungherese, Ferenc Puskas, che in un’ideale graduatoria dei migliori calciatori di ogni tempo occuperebbe di certo una delle primissime posizioni. Il sinistro sembra forgiato dalla grazia del Signore, la forza fisica è dirompente, la capacità realizzativa non ha eguali (84 gol in 83 partite in Nazionale, 1328 in carriera), il dribbling secco e micidiale, la tecnica modernissima. Ma il colonnello (così soprannominato, nonostante fosse maggiore dell’esercito) non si limita a concludere il gioco: arretra per rifinirlo, sale in cattedra impugnando con autorità la bacchetta del comando, orchestrando e guidando l’intera manovra. Vessillo di due dei più meravigliosi complessi di tutte le epoche, la Honved/Grande Ungheria negli Anni ’50 e il Grande Real negli Anni ’60. Il modulo dell’Ungheria al suo interno presenta pure i germi della Diagonal sudamericana, che parte dal mediano destro Bozsik e si snoda, tramite il centravanti arretrato Hidegkuti, fino appunto a Puskas, che si inserisce come massimo terminale sulla sinistra.
Un simile portento di talento e innovazione non può che lasciare orme indelebili sulla storia: tra il 4 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 5-3) e la rivoluzione di Budapest del 4 novembre 1956 che reprime nel sangue la libertà del popolo e cancella l’ “Aranycsapat”, l’Ungheria non conosce che vittorie, tranne qualche sparutissimo pareggio, e una sola sconfitta nel giorno però più importante: la finale del Mondiale ’54 contro una Germania alterata chimicamente. In modo particolare, dal 4 maggio 1950 al 4 luglio ’54 (giorno del ko con i tedeschi) nel periodo di massima espansione, i magiari inanellano una striscia di imbattibilità assurda: 32 partite, 29 vittorie e 3 pareggi, con 143 gol fatti e 33 subiti. Anche l’Italia si inchina a un prodigio così straordinario: avviene allo stadio Olimpico, il 17 maggio 1953. Gli ungheresi non vincono sul suolo italiano da 28 anni, quel giorno dominano dall’inizio alla fine, con un 3-0 persino stretto e la standing ovation di tutti gli spettatori, alzatisi in piedi ad applaudire al termine della partita.
Ma l’impresa che fa epoca è soprattutto quella di Wembley del 25 novembre 1953. Invitati a misurarsi al cospetto degli inglesi, ancora considerati maestri nonostante l’umiliazione del Mondiale ’50 (fuori al primo turno per mano degli Stati Uniti) e un calcio oramai vecchio e insensibile alle novità che spirano dal continente e dal Sud America, gli ungheresi sanno di non poter fallire. Nessuno, in oltre 90 anni di calcio, ha mai vinto sul suolo britannico. Più che da una superiorità tecnica, il motivo deriva dalla maniacale cura con cui i padroni di casa preparano le partite: sempre su terreni duri e durante stagioni fredde, due aspetti che rendono l’aria più rarefatta e il gioco più chiuso e agonistico. Aspetti che esaltano la scorza atletica dei britannici e alla lunga prosciugano l’ossigeno e la maggiore mobilità tecnica degli ospiti.
Sebes però non lascia nulla al caso: all’inizio di novembre si reca a Wembley per assistere a Inghilterra-Resto d’Europa, finito 4-4. Si accorge subito delle differenze climatiche e del pesantore del campo, con il pallone che non rimbalza mai più di mezzo metro. Il mattino seguente, si reca di persona a Wembley e prova a calciare e muoversi in quel terreno. Si fa regalare da un amico tre palloni di marca inglese, torna a Budapest, fa allargare un campo di allenamento per raggiungere le misure (110x70) di Wembley e lo concima con materiali duri, in modo da somigliare il più possibile ai campi inglesi.
I campioni olimpici si presentano alla sfida forti di allenamenti specifici e seppelliscono gli increduli padroni di casa sotto una valanga di reti (6-3), fornendo una lezione di calcio anche sul piano del gioco. Hidegkuti, da centravanti arretrato, attira il povero stopper inglese in una trappola, favorendo gli inserimenti delle mezzali. E’ lui il grande protagonista, con una tripletta fantastica, tra cui spicca un eurogol da 30 metri con il pallone tesissimo che conclude la sua corsa nel sette.
Puskas, quindi. Il “colonnello” sigla una doppietta, con un gol da cineteca. Lancio da 40 metri di Bozsik, al solito preciso al millimetro, Puskas scatta sul lato destro dell’area piccola ma riceve la palla al volo sul piede sbagliato, il destro. Senza lasciare che il pallone tocchi terra, alza il pallone e supera con un morbido pallonetto lo stopper inglese (il grande Billy Wright, non un brocco qualunque...), quindi sempre di prima intenzione raccoglie al volo la palla con il sinistro e la scaraventa in rete nell’angolo alto opposto. L’Empire Stadium è stragato, si alza in piedi ad applaudire, inchinandosi a tanta bellezza. Bozsik chiude la girandola con il sesto sigillo. Ancora più stupefacente, la “rivincita” che si consuma il 23 maggio 1954, all’approssimarsi dei campionati del Mondo svizzeri, a Budapest: finisce 7-1 per l’Ungheria, doppietta di Puskas, doppietta di Kocsis, una rete a testa per Lantos, Hidegkuti e Toth.
Il Mondiale del ‘54, forse il più grande della storia come contenuti tecnici, si presenta con l’Ungheria quale favorita indiscussa, accompagnata da altre due nazionali fantastiche: l’Uruguay campione in carica di Varela e Schiaffino, e il Brasile di Julinho e dei due Santos. La squadra di Sebes inizia subito da par suo asfaltando la cenerentola Corea del Sud per 9-0. Il copione si ripete nel secondo match del girone, vinto contro la Germania Ovest per 8-3. Il ct tedesco Sepp Herberger si dimostra nell’occasione un astuto volpone: manda in campo molte riserve e ordina ai suoi di picchiare sistematicamente Puskas. Il centromediano Liebrich riesce nella missione di azzopparlo e renderlo indisponibile per il proseguio del torneo. Nei quarti, l’Ungheria affronta il Brasile: una battaglia con rissa incorporata e Puskas che, seduto in panchina dopo l’infortunio, riceve una bottiglia in testa.
I magiari la spuntano per 4-2 e in semifinale attendono l’Uruguay iridato. Sotto una pioggia incessante, su un terreno che si trasforma ben presto in fanchiglia appiccicosa, i ragazzi di Sebes si portano avanti 2-0 grazie ai gol di Hidegkuti e Lantos. Nell’Uruguay esce infortunato il capitano Varela, sostituito nel ruolo e nelle mansioni da un ispirato Schiaffino. Il Pepe guida i suoi con il piglio del leader, Haahberg recupera i due gol di svantaggio e Schiaffino fallisce di un niente la terza rete. Nei supplementari le due squadre accusano presto la stanchezza, ma gli ungheresi possono giocare anche la carta aerea con Kocsis, che infatti realizza di testa le due reti che dischiudono le porte della finale di Berna. Per Gianni Brera, Ungheria-Uruguay è stata la partita più bella nella storia dei Mondiali.
Stremati e menomati dalle durissime lotte nei quarti e in semifinale, i magiari arrivano all’atto conclusivo non al meglio. Dall’altra parte, invece, i tedeschi dell’Ovest, giunti a sorpresa in finale, hanno affrontato un calendario molto più agevole, eliminando una non irresistibile Jugoslavia e la declinante Austria. Torna in campo Puskas, anche se risente ancora dei postumi dell’infortunio. Il capitano parte a tutta, al 6’ realizza l’1-0 poi favorisce il raddoppio di Czibor all’8’. Sembra la solita passeggiata di reti ma a quel punto l’ “Aranycsapat”, esausta, crolla. Morlock accorcia al 10’, quindi Rahn infila il 2-2 al 18’. L’Ungheria riprende coraggio, attacca a testa bassa ma non riesce a essere lucida come al solito in fase di tiro. Il portiere tedesco Turek è il migliore in campo, più per errori di mira degli avversari che per meriti propri. All’84’, in seguito a una delle poche sortite offensive della squadra teutonica, Fritz Walter, unico campione vero della Germania, ruba palla a Bozsik e serve in profondità il veloce Rahn: l’ala destra si infila nelle maglie della difesa e con un diagonale batte Grosics. Il gol lascia tutti increduli, l’Ungheria, imbattuta da quattro anni e mezzo, è sotto a una manciata di minuti dal termine. I magiari ricominciano ad attaccare, Puskas segna ma l’arbitro inglese Ling inspiegabilmente annulla. Finisce così, con il più pazzesco e imprevedibile degli esiti. Il telecronista tedesco comunica alla radio di stato: Signori, benché vi sembri incredibile, la Germania è campione del Mondo.
Il regime non perdona a Sebes la sconfitta, i tifosi al ritorno incendiano l’abitazione del tecnico, la stampa gli rende la vita impossibile con accuse premeditate e prive di fondamento. Sebes rifiuta le dimissioni, poi nell’estate del ’56 viene esonerato. Nell’autunno dello stesso anno, il popolo ungherese, schiacciato dal fardello di un comunismo disumano, si ribella in cerca della libertà. La Honved, che costituisce l’ossatura della Nazionale, si trova in tournée all’esterno e molti scelgono di non rientrare. La federazione ungherese squalifica i fuggiaschi, la Fifa per non incendiare il già teso rapporto politico tra Occidente e Oriente, accoglie la richiesta. Ma la Spagna franchista, che non intrattiene rapporti né con l’uno né con l’altro blocco, passa sopra e dà il benvenuto ai reprobi: Czibor e Kocsis vanno a rinforzare il Barcellona, Puskas il Real Madrid. Nel frattempo, il 4 novembre i carri armati sovietici fanno il loro ingresso a Budapest e soffocano la rivolta. Si chiude così, in un lago di sangue, l’epopea dell’ “Aranycsapat”, la più meravigliosa orchestra che abbia mai suonato su un campo di calcio. Neanche la più atroce delle conclusioni però potrà mai scalfire il ricordo di una leggenda.
Il Grande Real
Non inventa e non innova nulla sul piano tattico, però sarebbe ingeneroso tra le formazioni che fanno epoca non citare il Grande Real. Se l’Ungheria degli Anni ’50 ha forse rappresentato il massimo mai visto in quanto a organizzazione e struttura di squadra, il Real Madrid degli Anni ’60 è stata con tutta probabilità la compagine più ricca di campioni e talento dell’intera storia pallonara. Per nessun altra formazione l’appellativo “Dream Team” suona più azzeccato.
Il Grande Real nasce intorno a due figure leggendarie: la prima è quella di Santiago Bernabeu, già mezzala destra del club, quindi segretario, e dal 1943 al 1978 presidente. O meglio sarebbe dire patriarca supremo, condottiero unico, illuminato e intelligente, decisionista e severo al tempo stesso. Il secondo è Raimundo Saporta, nato a Parigi, innamorato del basket negli anni giovanili e quindi trasformato, dopo il suo incontro con Bernabeu e il suo ingresso nel Real, in general manager eccellente, capace di prevedere e manovrare ogni mossa, in sede di mercato come nelle stanze dei bottoni. Saporta controlla ogni mossa, in casa sua e fuori, aprendo la strada per i grandi strateghi del calcio contemporaneo che tutto sanno e tutto vedono. In Italia, due gli esempi più illustri: Italo Allodi nella Grande Inter e Luciano Moggi nella Juventus. Con Bernabeu e Saporta in sala comando, il Real diventa Il Real, la Squadra per eccellenza, la più temuta, la più potente, la più rispettata, la più affascinante, la più copiata.
Il motore di quello che passerà alla storia come Grande Real viene acceso nel 1953, quando Bernabeu e Saporta confezionano il capolavoro Di Stefano. L’asso argentino, svezzato nel magnifico River degli Anni ’40, nel 1949, in seguito alla crisi economica che ha colpito l’Argentina, si è trasferito in Colombia ai Millionarios di Bogotà, club posto fuori legge dalla Fifa e che recluta a suon di dollari i migliori calciatori del continente americano. Durante una tournée in Spagna, Di Stefano viene notato dagli osservatori del Barcellona e del Real. I blaugrana si accordano con il River, ancora legittimo proprietario del cartellino, il Real tratta con i colombiani e con il giocatore. Il Barcellona in realtà è arrivato per primo e ha la legge dalla sua, ma il Real sta già diventando Il Real, con poteri illimitati nella Spagna franchista. La federazione iberica adotta così la più sorprendente delle decisioni: Di Stefano giocherà una stagione nel Real e una nel Barça, in modo alternato, a partire dal Real. Il criterio dell’alternanza indigna il Barcellona che si ritira dalla contesa alquanto stizzito.
Ed è in quel momento che nasce la leggenda delle merengues. Non sarebbe mai stato possibile il meraviglioso “Dream Team” che abbaglia l’Europa e il Mondo nel corso degli Anni ’60 senza Di Stefano. Il fuoriclasse si presenta rifilando una tripletta al Barcellona nel SuperClasico e in breve cambia il proprio modo di giocare. Da centravanti velocissimo (soprannominato “La Saeta Rubia”, la freccia bionda) arretra il proprio raggio d’azione alle spalle della prima linea. Qui costituisce il fulcro della manovra, raccogliendo l’eredità dello scozzese James e del nostro Valentino Mazzola, e diventando una mezzala a tutto campo. Infallibile nei recuperi difensivi, superbo in regia e in fase di rifinitura, letale in zona gol (si laurea capo-cannoniere della Liga per cinque volte, in Coppa Campioni si arrampica alla mostruosa cifra di 49 gol, primato superato da Raùl solo in epoca moderna, in carriera spalma oltre 800 reti), con una personalità e un senso del comando dominanti e che non lasciano spazio ad altre prime donne. Il tutto meglio e sempre a velocità doppia. Un computer, senza punti deboli, come descritto anche dalle parole di storici ed esperti del tempo. Secondo autorevoli correnti di pensiero, il più forte calciatore di ogni tempo. E pur ammesso (e non concesso) che non si tratti del n.1 in quanto a grandezza, lo è stato quasi certamente in termini di completezza e continuità ai vertici.
Accanto a Di Stefano, Bernabeu e Saporta nel corso degli anni costruiscono un organico mirabolante, comprensivo di stelle assolute di prima grandezza mondiale, quali gli uruguayani Hector Rial e Santamaria, gli spagnoli Gento e Del Sol, l’ungherese Puskas. Arrivano persino (come Angelo Moratti nel 1963) a un passo dall’astro nascente Pelé. Il Real vince otto titoli in una decina d’anni, ma soprattutto le prime 5 coppe Campioni consecutive. Un record inattaccabile. Una formazione di all stars che diventa uno spot non solo per il calcio a livello planetario, ma anche per la Spagna. Sono anni difficili per la patria iberica, anni di isolamento dal resto del Mondo, di basso profilo politico a causa del regime e della politica di Francisco Franco, mal visto a Oriente come a Occidente.
Le imprese del Real danno un’immagine nuova e vincente della Spagna agli occhi del Mondo. Il migliore dei miei ambasciator all’estero, dichiara Castiella ministro degli esteri è il Real Madrid. Un Real Madrid più forte della politica e delle divisioni nazionali, un Real Madrid che vince e incanta su tutti i campi del continente e rappresenta, a detta di Rossi e Spinelli, i padri fondatori dell’Europa unita, il primo movimento di unificazione dei popoli e dei Paesi europei, 40 anni prima di Helmut Kohl e François Mitterand, dell’Euro e dei trattati di Maastricht. Una rivoluzione non tanto sul piano tattico (il Sistema resta il modulo utilizzato nei primi anni, salvo scalare con il passare del tempo verso un più flessibile 4-2-4, o meglio un 4-2-1-3), quanto su quello geopolitico. Perché il calcio può vincere qualsiasi barriera, qualsiasi divisione culturale.
Il Benfica
A metà strada tra il Sistema e il 4-2-4 si colloca il Benfica che sul fare degli Anni ’60 spezza il monopolio del Real Madrid in Europa e conquista due Coppe Campioni consecutive. La squadra portoghese si è già fatta conoscere in ambito internazionale grazie all’abile mano del tecnico brasiliano Otto Gloria. Il nuovo allenatore, l’ebreo-ungherese Bela Guttman è figlio della tradizione danubiana che ha dato i Natali a maestri come Meisl ed Erbstein, ma si è in seugito affinato in Brasile, dove ha contribuito a forgiare la mentalità della Nazionale di Feola campione del Mondo nel ’58. Guttman presenta un Benfica nella prima stagione fedele al Sistema inglese, modulo con cui i lusitani conquistano un po’ a sorpresa la Coppa Campioni ’60-’61 ai danni del favorito Barcellona di Herrera.
In quella squadra, davanti all’ottimo portiere Costa Pereira, la difesa si avvale della poderosa prestanza del centromediano Germano, protetto ai lati dai terzini Mario Joao e Angelo. I due mediani, Cruz e Neto sono elementi di provato valore e proteggono le spalle a due interni di classe cristallina: a destra Santana, a sinistra Coluna, motore della manovra, sapiente organizzatore di gioco e fantasista di lucidissima classe. In prima linea, il maniaco del dribbling Augusto a destra, il vivace Cavem a sinistra e il grande Aguas in mezzo, centravanti dalle spiccate qualità tecniche e capo-cannoniere del torneo con 11 centri.
Nella stagione seguente, il Benfica fa il bis in Coppa Campioni, superando nella finale di Amsterdam il declinante Real Madrid degli oramai attempati totem Di Stefano e Puskas. Guttmann è passato a un 4-2-4 per favorire i due nuovi innesti, la fortissima ala sinistra Simoes e soprattutto il jolly offensivo Eusebio, uno dei più grandi calciatori del calcio europeo, talento fantastico, movenze da ghepardo, rapidità, predisposizione al comando, senso del gol. È proprio il giovanissimo Eusebio a siglare la doppietta decisiva che annienta il Real. Davanti a Costa Pereira, la difesa da destra a sinistra prevede Mario Joao, Germano, Cruz arretrato dalla linea mediana e Angelo; a centrocampo, Cavem calato in un nuovo ruolo di interno o il classico Santana, con il factotum Coluna. In avanti, da destra José Augusto, Eusebio, Aguas e Simoes.
Dalla stagione ’62-’63 il Benfica passa nelle mani del cileno Riera, artefice del miracoloso terzo posto del Cile al Mondiale ’62. Riera preserva il 4-2-4 come modulo base, con il club che si arricchisce in attacco di un nuovo asso, Torres. Giunti ancora alla finale contro il Milan di Rocco, i portoghesi vanno in vantaggio grazie a un meraviglioso gol di Eusebio, al termine di una devastante azione personale. L’infortunio del cervello Coluna priva il Benfica del riferimento in mezzo al campo, il Milan ne approfitta e Altafini infila la doppietta che nella ripresa ribalta la situazione e regala il trofeo ai rossoneri.
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