TUTTO SUBITO
Quand'è che tutto ha preso a cambiare? Chissà. Forse tra l'ottobre del '76 e il gennaio del '79.
"Immaginate tutto quello che mi è accaduto: il debutto in Prima divisione, dieci giorni prima di compiere i miei sedici anni. E quattro mesi dopo la convocazione in nazionale, contro l'Ungheria. Quando entrai in campo e sentii l'ovazione del pubblico credetti che tutte le grida fossero per me. La verità è che nessuno si era accorto della mia presenza, probabilmente. Ma a me piaceva crederlo.... E poi il Venezuela con la nazionale giovanile, e di nuovo nella nazionale maggiore, quando la stampa mi chiamò "il Pelé bianco degli argentini". E la delusione quando fui escluso dai mondiali del '78. Piansi di rabbia, quella volta. Volevo spaccare il mondo e abbandonare il calcio. Mi salvò mio padre. E poi di nuovo nella nazionale maggiore, per aprire un nuovo ciclo, dice Menotti; aprirlo con me. Non credo che a molti sia capitato lo stesso"L'adolescenza è parola priva di senso, per Maradona. Ha dovuto crescere presto.
"...ho dovuto capire in gran fretta cose che avrebbero richiesto più tempo. Nel calcio sono stato costretto a vedere cose che non mi piacevano. L'invidia per esempio. Io non sapevo cosa fosse. Mi chiudevo in una stanza e piangevo. Non ho molti amici io...."
E poi sono arrivati i primi contratti pesanti. Quelli cambiano tutto naturalmente.
"...no, cioè sì. Certo qualche cosa è cambiato. Io ho sempre avuto un solo pantalone, lo tenevo da conto per il sabato, poi, di colpo ho potuto comprarmi di tutto, camicie, scarpe. Il guardaroba si è fatto ricco. E poi è venuta la fidanzata, Claudia, che ho conosciuto quando da Fiorito mi sono trasferito alla Paternal. E poi, più importante di tutto, ho potuto finalmente offrire ai miei questo..."
"Questo" è una spiaggia di Atlantida, in Uruguay, dove si svolge il campionato giovanile sudamericano. A sette mesi dal mondiale giovanile che si svolgerà in Giappone. "Questo" sono le prime vacanze che dona Tota e Chitoro abbiano mai fatto in vita loro («Sapesse quanto abbiamo lottato mio marito ed io! Non avrei mai immaginato questi giorni»). Diego ha affittato una casa per i suoi e una per l'amico Jorge.
"...io non dimentico le mie origini. Villa Fiorito è sempre il mio presente, non è il passato. Dispongo
di più soldi? Meglio. Prima riesco a sistemare la mia famiglia, meglio è. Ma io non firmerò mai un contratto pubblicitario, se con esso volessero impadronirsi della mia vita..."
Il gennaio 1979. Sotto l'abile regia di Jorge Cyterszpiler, il ragazzino poliomielitico amico d'infanzia che si era improvvisato giovane manager, feroce custode dell'immagine e degli interessi di Diego, avevano creato la Maradona Produciones. Diego ha solo 18 anni, e, senza mai aver vinto neanche una scudetto, il giovanotto che la vox populi ha da tempo indicato come l'erede di Pelé, si avvia a diventare quello che la ragione sociale della nuova società promette (o minaccia, fate voi)
UN UOMO, UN IMPRESA
"...se dovessi accorgermi, quando avrò compiuto i ventidue anni che il calcio ha smesso di appassionarmi, abbandonerei tutti. Non metterei piede neppure per un solo minuto in un campo da gioco se dovesse venirmi meno la voglia di giocare..."
Ma qualche volta ti sfiora l'angoscia che il mondo è più forte di te, che in qualche modo ti sta fagocitando. Nell'aeroporto di Lagos, in Nigeria, i calciatori del Boca Juniors bivaccavano stanchi, in attesa del viaggio estenuante che li avrebbe riportati in patria, in un giorno d'ottobre del 1981. Era stata una settimana massacrante. Una trasferta in Costa d'Avorio senza senso e mal organizzata, per giocare un quadrangolare ad Abidjan. L'ultimo luogo sulla faccia della terra dove disputare un incontro di calcio, avevano pensato tutti. L'ultimo angolo al mondo dove trovare tifosi e cacciatori d'autografi. Invece Diego Armando Maradona, 21 anni, unico titolo al suo attivo un campionato del mondo giovanile, aveva trascorso tutte le ore passate lontano dallo stadio chiuso in una stanza dell'Hotel lntercontinental. Aveva dovuto farlo, per sfuggire all'assedio cominciato appena lui aveva messo piede in terra africana. Neanche i pesanti manganelli dei poliziotti avevano potuto nulla contro l'orda umana che si era riversata all'aeroporto e sulle strade per vedere il ragazzo argentino venuto da Villa Fiorito.
Così quel giorno d'ottobre, all'aeroporto, mentre aspetta il volo del ritorno, qualcosa si rompe nell'animo del campione. «Voglio mollare», confessa di punto in bianco al giornalista amico che gli siede accanto. Lo dice con la tranquillità apparente che rende forza e verità all'argomento più assurdo.
«Voglio mollare il calcio. Lo so, mi dirai che sono impazzito, ma non è vero. Ho maturato la decisione durante questa trasferta. Sono stanco, desidero che la gente si dimentichi di Maradona, che i giornali non ne parlino più, che mio padre non debba sopportare insulti quando è allo stadio, e che a me non vengano gridate parolacce sulla strada a causa di quello che pubblicano i giornali. E tante altre cose... Sembra che io sia colpevole anche delle recenti inondazioni. E allora lascio il professionismo».
Solo quello però. Perché all'altro calcio, quello che si gioca nelle strade, nei campetti di periferia e ha per protagonisti i bambini Diego dice di non voler rinunciare mai. Non è il pallone che lo ha nauseato, né l'entusiasmo della gente sulla strada («l'affetto dei negri mi ha toccato l'anima»), ma le critiche in patria.
ANIMA FRAGILE
Perché Maradona non ha mai sopportato le critiche. Le critiche sono l'inverso dell'amore, quello che aveva da bambino prodigio, e da adolescente povero ma vezzeggiato da un quartiere prima, da una nazione poi. Le critiche sono la cattiveria del mondo, sono senza senso. Lui non ne ha colpa.
E' un momento particolare.
Da un anno ha lasciato l'Argentinos per il Boca Juniors, il grande club cittadino che aveva vinto la concorrenza di Barcellona, Napoli e Juventus, anche grazie a una sollevazione nazional-patriottica per mantenere in patria il giovane talento.
E naturalmente i suoi vecchi tifosi non l'avevano presa bene. Per di più il Boca è una potenza calcistica nazionale, e soffre dunque l'accesa rivalità del River Plate e dell'Indipendiente. Una rivalità che, da quando si gioca al calcio, sotto tutti i cieli, si sfoga sul giocatore avversario. Il Boca con Maradona si avvia a vincere il campionato, l'entusiasmo dei tifosi è alle stelle, ma le casse della società sono vuote, disastrate da un acquisto che non avrebbe mai potuto permettersi. Così prima o poi Maradona dovrà emigrare in Europa.
Lo sa lui, lo sa la società e lo sanno i tifosi, che naturalmente sono in effervescenza. Il padre viene insultato per la strada, la madre litiga con le vicine di casa. E tutti sono trattati da traditori.
Anche questo è la norma. Ogni calciatore professionista lo sa. Ma Maradona è un genialoide istintivo che non ha mai avuto molto del professionista. Uno per cui il calcio è passione. E l'amore gli è dovuto. Qualche volta lo rende. O sembra renderlo.
UN DIO DEL CALCIO
Maradona era un piccolo Mozart, capace di trasformare in musica divina i percorsi del pallone, tenendolo incollato al suo piede sinistro contro ogni legge di gravità. Per lui vale quello che Gertrude Stein raccontava di Picasso: «Era nato facendo disegni; e non disegni da bambino, ma disegni da pittore» . Cosa vuole dire? Significa che Diego Armando Maradona non ha mai imparato da nessuno le cose fenomenali che faceva vedere in campo. Baciato da una scheggia di infinito, se l' è ritrovate addosso, nel Dna. E poi, molto semplicemente, le trasformava in palleggi, dribbling, assist, veroniche e gol. «Quando stavo bene, in campo, sapevo di poter fare qualunque cosa», ripete ancora adesso Maradona. E non sta barando. C'è anche una conoscenza che nasce dal montaggio di pezzi di vita, e brandelli di prodezze, sminuzzati e rimessi assieme.
Alla fine del lavoro, resta evidente una cosa: Maradona non è stato un esempio di vita, ma un dio del calcio, questo sì.
Si placava entrando in campo, mettendosi a giocare, divertendosi come un bambino. Quello era il suo modo di sospendere il tempo, lasciare il mondo da parte e mettersi in tasca l'immortalità. Fosse stato per lui non avrebbe mai smesso. Il campo era il suo elemento, là la sua sindrome di onnipotenza aveva un riscontro tangibile. Fuori era tutta un' altra cosa. Era ed è: come togliere una foca dall'acqua e vederla muoversi lenta, inadeguata e pesante sulla terra ferma che, invece, è l'habitat più frequentato dagli umani. Stessa cosa.
_________________ GULLIT:"Quando vedo Messi penso che è un grande calciatore ma è protetto: dagli arbitri, dalle telecamere, dal regolamento. Messi può limitarsi a dribblare. Diego doveva saltare alto così, non per fare dribbling ma perché volevano spezzargli le gambe".
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